Premessa
La materia della sicurezza sul lavoro rappresenta ad oggi uno dei principali punti di interesse, per statistica e per numerosità di decisioni, della giurisprudenza di merito e di legittimità.
La stessa, oltre ad essere autonomamente disciplinata dal D.lgs. 81/2008, confluisce perfettamente nel “sistema 231”, trovando spazio tra i reati in grado di giustificare una responsabilità degli enti ex D.lgs. 231/2001.
Nella recente decisione della Corte di Cassazione si valorizza ancora una volta l’implementazione del sistema 231, la cui efficacia è in grado di garantire la continuità del business fornendo all’azienda uno scudo penale.
Il caso
La dipendente di una Srl, nel provare un’apparecchiatura per il taglio di mozzarella per la pizza, si procurava l’amputazione di alcune dita della mano destra poichè veniva in contatto con le lame rotanti del dispositivo, che ancora rimanevano in movimento nonostante la stessa avesse azionato il comando di arresto.
Al responsabile del servizio di prevenzione e protezione in azienda (RSPP) veniva pertanto contestato di non avere adottato tutte le opportune tutele per ridurre i rischi legati all’utilizzo di un macchinario pericoloso perché composto da parti taglienti, nonché di averne permesso l’uso a personale non specificamente formato: in effetti, la dipendente neppure era titolata a svolgere quella mansione
In primo grado, il Tribunale di Modena riconosceva la colpevolezza del RSPP della Società, per il reato di lesioni colpose gravissime ai danni di una dipendente e inoltre, dichiarava sussistente la responsabilità amministrativa dell’ente, ai sensi dell’art. 25 septies, comma 3, D.Lgs. 231/2001.
In secondo grado, la Corte D’Appello confermava la condanna dell’ente e della persona fisica, evidenziando che il RSPP era stato investito, mediante apposita delega di funzioni, del potere di compiere autonomamente scelte decisionali in materia di sicurezza, con l’esclusione di ogni ingerenza da parte dell’ente. Di conseguenza, questi ampi poteri gestionali elargiti al RSPP sono stati ritenuti sufficienti a conferire allo stesso la veste di soggetto apicale, ovvero posto al vertice dell’azienda, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 231/2001.
La problematica
Per una migliore comprensione dell’argomento trattato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 34943/2022, con cui è stato accolto il ricorso dell’ente, annullando il provvedimento impugnato e rinviando per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello competente, non può prescindersi dall’analisi di una dirimente problematica ai fini che occupa: la corretta identificazione della persona fisica che ha posto in essere la condotta, quale apicale ovvero sottoposto.
Il Dlgs 231/2001 individua due diverse tipologie di soggetti cui legare, eventualmente, la responsabilità dell’ente e, di conseguenza, una diversa disciplina in ambito di onere della prova: nel caso in cui la condotta appartenga all’apicale, sarà l’ente a dover dimostrare il soddisfacimento delle condizioni di cui all’ art. 6 del decreto, mentre per le condotte tenute dai sottoposti, ai sensi dell’art. 7, spetterà agli inquirenti fornire la prova in giudizio.
Per i giudici di legittimità, la ratio di un sistema così strutturato è da rinvenirsi nella circostanza che, di fatto, “la responsabilità dell’ente trova giustificazione in una colpa di organizzazione, ovvero in un deficit dell’organizzazione che si pone quale causa del reato ove l’operato dei soggetti apicali è ritenuto ex se espressivo di una colpa di organizzazione. (…) Per i soggetti sottoposti all’altrui direzione e controllo, invece, il legislatore ha ritenuto non operante un tale meccanismo di trasposizione e pertanto ha individuato un diverso fattore di riconduzione del reato all’ente, rappresentato dalla violazione degli obblighi di direzione e di controllo facenti capo alla figura apicale. Tale violazione ha la funzione di assicurare che il reato del sottoposto metta radici nella colpa di organizzazione dell’ente; tanto che ove sia stato adottato un idoneo modello di organizzazione e gestione e lo stesso sia stato anche efficacemente attuato, la violazione degli obblighi di controllo e di gestione perde la sua valenza indiziaria e degrada a fatto dell’apicale non espressivo della colpa di organizzazione dell’ente”.
Ecco per quale motivo è di fondamentale importanza classificare correttamente il soggetto agente poiché, mentre la figura dell’apicale si sostanzia nell’ente con connessa responsabilità a carico di quest’ultimo, il fatto compiuto dal sottoposto si riverbera sull’ente solo quando c’è un difetto di controllo e gestione ascrivibile ai vertici e manca un modello organizzativo per prevenire i reati e che faccia scudo all’azienda da qualsivoglia responsabilità
Conclusioni
Nel caso di specie, dunque, escluso che il ruolo di RSPP possa fondare responsabilità nei termini anzidetti trattandosi di una funzione di “ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro” e che alla delega conferitagli “non può riconoscersi rilievo decisivo al conferimento mediante atto di delega di specifiche attribuzioni per lo svolgimento di una funzione determinata, anche se nevralgica dell’ azienda (come quella prevenzionistica, attinente alla prevenzione e protezione dei lavoratori dai rischi implicati dal processo produttivo e al rispetto delle misure di sicurezza adottate sul luogo di lavoro), per fare assurgere il delegato a soggetto in posizione di amministrazione o di direzione dell’ ente o di una sua unità produttiva, secondo la previsione del citato articolo 5 lettera a) “ben si comprende il vizio delle sentenze di merito nell’aver operato una equiparazione tra il potere di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza ed il riconoscimento di una veste apicale ai sensi del Dlgs 231/2001”.
Per cui deve essere cassata con rinvio la sentenza d’Appello che riconosce la società responsabile dell’illecito amministrativo cui all’art 25 septies, co. 3 del Dlgs 231/2001 dopo l’infortunio sul lavoro ascrivibile a violazione da parte del RSPP delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ex Dlgs 81/2008, laddove, per un verso, quest’ultimo non può essere ritenuto una figura apicale e, per altro, risulta che la società abbia adottato e correttamente attuato, in epoca anteriore al reato, un idoneo modello di organizzazione e gestione.
La centralità del MOG 231
Il caso pone in evidenza la centralità dell’adozione e della corretta applicazione da parte delle aziende di un modello di organizzazione e gestione ex Dlgs 231/2001, dal momento che un eventuale fatto illecito compiuto da un sottoposto si riverbererà sull’azienda solo qualora ci sia un difetto di controllo ascrivibile ai vertici e manchi un modello organizzativo di prevenzione dei reati. Ma quando questo è adottato e, di fatto, applicato, l’azienda va esente da responsabilità per il fatto commesso dal sottoposto, per il sol fatto di essersi munito di un così valido strumento.